‘Anch’io sparavo agli uccelli’ / mormorai, come fra me e me. / ‘E perché / hai mollato?’ domandò. / Io lo guardai. ‘Perché metti e metti / agli uccelli, mi aveva / preso la voglia / di sparare pure agli uomini’. / / Tirò il cacciatore / uno scracchio, sembrò ridere. / […] / ‘Dovevi continuare / a tirare agli uccelli’ disse. ‘E dopo / spararti nella gola’. / Alzò il fucile, puntando sopra la mia testa, / e tirò un colpo contro / il cielo (De Vita 2011, 142-144)
*Quest’articolo è tratto, in forma ridotta, dalla mia tesi di laurea, “Nino De Vita scrittore per ragazzi”.
Tratto da “Nnòmura” (2005), terzo volume di una trilogia autobiografica in dialetto, “Il cacciatore” (2006) è il primo dei racconti in versi del poeta siciliano Nino De Vita pubblicato da Orecchio Acerbo.
È il racconto-confessione del poeta che ricorda, in prima persona, gli anni lontani in cui era un appassionato cacciatore di frodo e il fatidico giorno in cui tutto, improvvisamente, finì, dopo l’ultimo sparo a un’allodola.
È diviso in tre parti, ognuna delle quali sviluppa dei precisi nuclei narrativi. Nella prima parte si racconta la “smania”, la passione irrefrenabile che spinge un giovane Nino alla caccia, senza alcuna ragione di sussistenza ma solo per il piacere di sparare.
Caspita che cacciatore
accanito, che avvilimento
che ero io, per gli uccelli,
una volta.
È molto bello il gioco di assonanze e consonanze dei primi due versi, con la triade caspita-cacciatore-accanito che subito presenta la caratteristica principale del personaggio che parla. L’incipit racchiude già l’atmosfera, il tono della narrazione: un elemento importantissimo nella letteratura per ragazzi perché attira il lettore e lo invoglia a continuare. I lettori intuiscono già qui che il personaggio De Vita era “una volta” un cacciatore “accanito”, forse non lo è più. Ma prima di una possibile conversione bisogna capire le ragioni profonde, vedere con gli occhi del cacciatore, stargli accanto senza giudicare. Ed è esattamente quello che fa lo scrittore in questa prima parte: la descrizione, senza fronzoli ma solo con i dettagli più essenziali e potenti del suo ricordo, delle sue giornate passate a sparare. Il cacciatore punta a qualsiasi cosa, “un ciuffetto, una testina / -da una verga, la cima di qualche cosa-”; gli basta solo “che due ali si muovessero” per tirare. De Vita parla di se stesso senza alcuna autocensura, dice la verità, seppur trasfigurata in poesia, e lo fa in un crescendo di tensione e di irrazionalità. Vediamo un esempio in questi versi che spiegano in modo magistrale l’assurda ragione che spinge un uomo a sparare:
E se non c’erano
uccelli, sparavo
alle latte svuotate,
alle foglie di fichidindia, ai pomodori
lanciati in aria, a coppole e berretti…
Dovevo sparare.
Nino deve sparare, non può farne a meno. Lui ama “[i]l colpo e il rinculo / del fucile portato / alla spalla, l’odore / della polvere” che “magnificavano il cuore”. Questa magnifica ossessione comporta però dei rischi e delle fatiche per un cacciatore “senza porto d’armi”, come il nascondersi dalle guardie, una forte disciplina e tanto camminare. Col fucile del padre il giovane cacciatore ogni domenica si allontana dalla sua contrada, “lontano, fin sopra / la montagna, lungo la pianura / di Parecchiate, al fiume, / per la costa di Rrìbbici”.
In questa prima parte non abbiamo precise indicazioni temporali. De Vita racconta di “[u]n paio di anni” passati per imparare un rituale svolto con precisione e sempre uguale: “caricare le cartucce […] calibrare la polvere”, dividere le munizioni “per gli uccellini” e “per gli uccelli più grossi”.
Dopo il ritratto dettagliato del cacciatore “accanito” della prima parte, nella seconda il poeta racconta le strategie usate e un breve episodio di caccia finito male.
Imitavo le allodole.
L’uccello, che passava,
ascoltava e si avvicinava,
si fermava nell’aria
a guardare, a cercare;
chiamavo e si avvicinava.
De Vita qui anticipa alcuni elementi importanti dell’epilogo: le allodole e il loro sguardo. E dopo le descrizioni, con quei termini anche tecnici della preparazione alla caccia, i versi si fanno musicali, con quel gioco di richiami e ascolti, attese e avvicinamenti. Il giocare coi contrasti è una caratteristica fondamentale della poetica devitiana e il ritmo dei suoi versi narrativi è perfettamente integrato nel piacere del racconto. Dopo la descrizione dei “trucchi” per catturare le anatre e della fatica di notti trascorse al freddo e sotto la pioggia, con un’improvvisa ellissi narrativa De Vita introduce un secondo personaggio: Turi Mangiaminestra. L’episodio di Turi è molto importante perché affianca al personaggio principale, l’Io narrativo, un secondo cacciatore e sembra voler anticipare un conflitto, un disagio. Un giorno, infatti, i due vanno a caccia insieme ma Nino spara per sbaglio a uno dei furetti di Turi, pensando fosse un coniglio: “Turi Mangiaminestra / faceva come un pazzo”. I due settenari finali di questa seconda parte, nella loro essenzialità, accentuano ancora di più il sottofondo di irrazionalità alla base della caccia.
L’inizio della terza e ultima sezione si apre con la data esatta in cui Nino smette di fare il cacciatore: “[n]el mese di settembre / del millenovecentosessantotto / questa smania cessò”. De Vita ha quindi solo diciott’anni, sta diventando un uomo e, come vedremo nel finale, diventerà un uomo migliore. Un giorno di quel settembre il cacciatore si trova a Parecchiate, intento a sparare “a tutto quello / che c’era da sparare”. Vede uno stormo di allodole e spara “due colpi”: “[u]na fermò / sospesa, nell’aria, poi cominciò a girare, / a scendere, ferita, a scendere, / e venne a stramazzare / vicino, su una striscia / di terra già arata”. Grazie all’uso della ripetizione del verbo “scendere” e alla serie ternaria dei verbi “girare” “scendere” e “stramazzare” il poeta ci porta dentro la caduta libera dell’uccello ferito. L’allodola cade in un solco di terra già arata, un solco che l’accoglie come fosse un sepolcro. Nino si avvicina pensando già al duro rituale a cui non può fuggire.
Già sapevo cosa dovevo fare,
tante volte lo avevo già fatto:
un uccello
morto si prende, ancora
caldo, insanguinato;
un uccello ferito
si uccide; se è piccolo
gli si stacca, premendo
con le dita, la catena
del collo;
se è grosso si mette
la testa sotto i piedi,
ferma, e si tira
con le mani il corpo, si tira, si storce,
fino a che si stacca
il collo.
Dopo la cruda descrizione di come si uccide un uccello ferito, in un passaggio potente di scrittura realistica e poesia piena di ritmo, con un tempo più veloce rispetto ai versi precedenti, un incedere che ben si adatta alla violenza subitanea dell’atto, la tensione di chi legge è molto alta, sapendo ora la fine che spetta all’allodola. Nei versi successivi De Vita rallenta il ritmo e gradualmente il racconto si fa quasi preghiera, con una velata partecipazione del narratore alla sofferenza dell’uccello. Non c’è però alcun sentimentalismo ma un lento gioco di sguardi tra l’uomo e l’animale, un’iniziale sfida che si trasforma in tenerezza, un rituale a cui neanche questa volta Nino si sottrae: un rituale che diventa iniziazione, rito di passaggio a una condizione umana diversa.
L’allodola stava rannicchiata,
in un solco, accanto
a una zolla.
Chiudeva e apriva le palpebre
e mi guardava, fisso.
Cominciai a guardarla,
come per sfidarla, aizzarla…
Dopo, non so, mi intenerii.
Avvertì alla gola come
un nodo.
Mi chinai.
L’afferrai e chiudendo
gli occhi cercai il collo,
glielo staccai.
Riposi l’uccello
nel solco e più volte,
più volte, raschiando
col piede lo seppellii.
C’è in questo linguaggio di sguardi tra il cacciatore e l’allodola qualcosa che indirettamente fa pensare allo sguardo di un poeta, al silenzio che lo circonda, al rispetto di fronte alla realtà che sta osservando. È lo stupore, il guardare qualcosa di conosciuto con occhi diversi, come se fosse la prima volta, come guardano i bambini.
Gli sguardi hanno parlato, l’uomo ha cominciato ad ascoltare l’altro, l’animale, anch’egli fratello (Fofi 2006)
Molto bello è il modo con cui il poeta descrive un cambiamento interiore così radicale senza esplicitarlo. De Vita non è mai didascalico né vuole insegnare la non violenza. Sono le azioni del personaggio, i dettagli dei gesti e poche ma forti immagini emotive (il nodo alla gola, quella tenerezza appena accennata) a comunicare il cambiamento. Tutto questo non è una gratuita esibizione stilistica per scioccare il lettore ma un passaggio necessario che il cacciatore deve affrontare per l’ultima volta. Secondo Goffredo Fofi (2006) Nino “se uccide ancora una volta, l’ultima, è adesso perché l’allodola smetta di soffrire” e quei gesti crudeli che aveva già descritto prima con “clinica durezza, vengono ripetuti ora secondo un’altra logica e un’altra coscienza […] sono ora un segno di pietà e di reciproca comprensione”. Il dolore dell’allodola e quello del cacciatore che la uccide diventano un dolore universale. Da questo dolore nasce un uomo nuovo, nasce il poeta che userà gli occhi, invece del fucile, per catturare e comprendere la realtà. Non più le pallottole per uccidere un uccello ma le parole per raccontare la sofferenza degli animali, delle cose, dei luoghi, degli uomini.
Le illustrazioni
“Il cacciatore” è illustrato da Michele Ferri, artista molto noto in Francia e in Europa. Nato a Fano (Pesaro) nel 1963 è illustratore, pittore, scultore e violinista. Diplomatosi all’I.S.I.A. di Urbino (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) ha lavorato per tanti anni a Parigi dove nel 1994 avviene l’esordio come illustratore con il libro “Simon et le gèant” e dove ha riscosso un grande successo con “Paroles d’éspoir” (Albin Michel 1995). In Italia ha illustrato diversi volumi delle Edizioni San Paolo e per Orecchio Acerbo ha illustrato anche “Il narratore” di Saki (2007).
[i]l tema narrativo – scandito su modulazioni poetiche – non si presenta facile da rendere in immagini. Michele Ferri c’è riuscito con un’intensità espressiva che rafforza e intensifica l’effetto della parola (Roberto Denti 2006)
Con la luce dei suoi acquerelli Ferri ha reso ancor più intenso il racconto di De Vita, costruendo un’atmosfera quasi metafisica intorno alle parole aspre ed essenziali del poeta. Se quella di De Vita sembra una confessione, col tono di una preghiera sul miracolo di un cambiamento umano, la pittura di Ferri sembra “raccontarci dell’incontro del cacciatore con l’allodola alludendo quasi a un miracolo. Dopo tutto la Legenda aurea è ricca di simili rivelazioni, e Ferri ha fatto ricorso ai fondi oro della pittura gotica (e rinascimentale) proprio perché così voleva la storia, perché questo ne era il senso vero e riposto” (Fochesato 2006). È un segno netto e rigoroso quello dell’illustratore pesarese, il segno pastoso di un olio piantato nella terra così come le parole di De Vita sono radicate nei campi della sua Cutusio. Come De Vita che, nelle pagine iniziali, riesce con poche ed essenziali sequenze a descrivere la smania di un cacciatore, anche Ferri lavora su poche immagini e va nel profondo di quella ossessione: il dettaglio della canna del fucile puntata su un ramo spoglio dietro cui si affaccia “un ciuffetto, una testina” di un uccello; una foglia di fichidindia, un pomodoro e un berretto traforati da tre pallottole di cui vediamo le scie bianche nell’aria; il profilo del cacciatore, dal viso rosso-marrone come la terra, che punta con determinazione sulle sue prede.
Da notare il bel taglio dato a ogni illustrazione, con un uso narrativo del fuori campo che accresce la tensione e una simmetria che rende armonico il materiale così intenso del racconto devitiano. Ma è nell’uso del colore che Ferri diventa un vero e proprio co-autore del testo nella costruzione ermeneutica della narrazione, aggiungendo e suggerendo una sua visione. Si intende qui una sorta di sacralità e di mistero metafisico che rendono la conversione del cacciatore qualcosa di universale, che riguarda tutti gli uomini, nonché un simbolo del sacro insito in ogni vita, che sia umana o animale.
Predominano l’ocra, il dorato, tutte le gradazioni dei colori della terra e del cielo, con una padronanza assoluta dei colori complementari dal cui dialogo, scontro e incontro, nasce un’armonia insolita se pensiamo al tema e al racconto così duro, a volte, del poeta marsalese. Questa armonia è sempre presente, anche quando Ferri, con un’immagine molto potente, descrive la rabbia di Turi Mangiaminestra dopo l’uccisione del proprio furetto da parte del protagonista. Se il nostro cacciatore è presentato con un vestito elegante, ben rasato, con la camicia bianchissima, quasi a nasconderne la violenta passione, Turi sembra quasi un Rambo al confronto e un po’ fa pensare a certi mafiosi da schermo cinematografico. Nella scena del furetto ucciso per sbaglio la figura disperata di Turi si allarga su tutta la doppia pagina, con le braccia alzate al cielo, l’animale stretto in pugno, e un viso deformato dalla rabbia. Come suggerisce Orecchio Acerbo nella sezione del suo sito dedicata alle scuole “[L]’illustratore lo fa piangere senza lacrime”.
Lo sguardo, quello del cacciatore che mira agli uccelli, e il gioco di sguardi con l’allodola nell’ultima parte del poemetto, sono elementi fondamentali nella narrazione autobiografica di De Vita. È dagli occhi del cacciatore che nasce il cambiamento. Dagli occhi dell’uccello ferito uno sguardo di pietà colpisce il cuore dell’uomo. Ferri lavora molto su questo elemento, con una varietà di situazioni in cui vediamo la visuale dell’uomo cambiare di prospettiva: nella prima di copertina il cacciatore, di profilo, con lo sguardo puntato al cielo; gli occhi attenti che spuntano dai fichidindia dove l’uomo si nasconde per sfuggire ai guardiacaccia; gli occhi, nerissimi, puntati su un cumulo nerissimo di polvere da sparo.
Lo sguardo, quindi, come elemento chiave nella narrazione. Nella parte finale, in cui le azioni scaturiscono dall’incontro di sguardi tra uomo e animale, Ferri decide di non mostrarci più gli occhi del cacciatore, mostrato solo di spalle e, nell’ultima immagine, di profilo. L’illustratore lascia che sia la potenza della poesia di De Vita a raccontare quel miracoloso gioco di sguardi e ci fa intravedere soltanto il piccolissimo occhio dell’allodola, di profilo, mentre sta “rannicchiata, in un solco, accanto a una zolla” e, chiudendo e aprendo le palpebre, guarda fisso l’uomo che sta per ucciderla. Nelle ultime due illustrazioni il focus emotivo è sul cacciatore. Accanto al testo in cui De Vira racconta il momento esatto in cui percepisce un’improvvisa tenerezza, quando “[a]vvertii alla gola come / un nodo”, l’illustrazione di Ferri ci mostra il cacciatore chinato sull’allodola, di spalle, col fucile per terra e il piccolo uccello dentro il pugno di cui percepiamo la stretta prima della morte.
L’ultima immagine ci fa vedere cosa succede dopo gli ultimi quattro versi di De Vita: “[r]iposi l’uccello / nel solco e più volte, / più volte, raschiando / col piede lo seppellii”. Il cacciatore, alzato di fronte al cumulo di terra in cui ha sepolto l’allodola, col cappello in mano, il fucile alle sue spalle gettato a terra, rende l’estremo saluto all’animale, con sullo sfondo un grande cielo dorato che si incontra all’orizzonte con un’immensa distesa di terra arata.
Quel cumulo di terra, così simile al cumulo di polvere da sparo, è immagine sacrale di sepoltura e il seppellimento assume quello che in antropologia è considerato il suo carattere fondante di civiltà. “Il gesto di pietà del seppellimento chiude il racconto, che è poesia e che è anche, a suo modo, preghiera” (Fofi 2006). Credo che questa interpretazione di Fofi sia non solo molto appropriata ma anche il riflesso di quel dialogo così complesso e pieno di senso tra le parole e le immagini, un incontro tra due modalità narrative diverse che, insieme, danno vita a un’unica, potente opera che parla di come alla violenza possiamo, sempre, rinunciare.
Bibliografia
Denti, Roberto. 2006. “Un poeta racconta la violenza atavica della caccia”. Liber 2006 (71).
De Vita, Nino. 2006. Il cacciatore. Illustrato da Michele Ferri. Con una nota di Goffredo Fofi. Roma: Orecchio Acerbo.
De Vita, Nino. 2005. Nnòmura. Messina: Mesogea.
De Vita, Nino. 2003. Cùntura. Messina: Mesogea.
De Vita, Nino. 2001. Cutusìu. Prefazione di Vincenzo Consolo. Messina: Mesogea.
Fochesato, Walter. 2006. “E se uno sguardo…”. Andersen, luglio 2006.
Fofi, Goffredo. 2006. “Quinto: non uccidere”. In: Il cacciatore, Nino De Vita. Roma: Orecchio Acerbo.