“[n]on c’era da chiedersi ora che cosa fosse successo al viso dei maiali. Le creature di fuori guardavano dal maiale all’uomo, dall’uomo al maiale e ancora dal maiale all’uomo, ma già era loro impossibile distinguere fra i due”
(Orwell in Sciascia 1997, 35)
*Quest’articolo è tratto dalla mia tesi di laurea, “Nino De Vita scrittore per ragazzi”
Mi sembra molto suggestivo anticipare l’analisi de “Il racconto del lombrico” di Nino De Vita citando le “Favole della dittatura“, opera d’esordio che Leonardo Sciascia scrisse nel 1950 (anno di nascita di De Vita). Ma non cito le parole dello scrittore agrigentino quanto quelle di George Orwell, tratte da “La fattoria degli animali” (Animal Farm, 1945) e poste in apertura al libro. Come in Orwell e in Sciascia anche ne “Il racconto del lombrico” i protagonisti sono animali. E allo stesso tempo anche De Vita, come i suoi autorevoli predecessori, fa parlare gli animali per raccontare la debolezza, la violenza, dell’essere umano. Ma se con Orwell c’era almeno la scintilla di una rivoluzione (fallita) con De Vita non c’è alcuna solidarietà né voglia di cambiamento. E se l’intento di Sciascia era chiaramente la denuncia del fascismo, quello di De Vita, dentro una vicenda facilmente comprensibile nei suoi accadimenti, non è mai esplicitato. Il racconto del poeta marsalese, come dovrebbe essere ogni opera di qualità per bambini e ragazzi, non vuole insegnare la morale né fare aperta denuncia, ma si offre semplicemente al piacere della lettura, allo stesso modo de “Il cacciatore” di cui vi ho parlato qui.
“Il racconto del lombrico” è il secondo racconto in versi di Nino De Vita pubblicato da Orecchio Acerbo nel 2008. È tratto da Cùntura (2003), secondo volume della trilogia in dialetto (Nnòmura e Cutusìu gli altri due).
Apologo, parabola, racconto in bilico tra fiaba e favola, tra satira e denuncia, è la storia di un misfatto, di un processo imbastito con false accuse nei confronti di un emarginato. Diviso in quattro sequenze e giocato tutto sul dialogo, quasi teatrale, tra i piccoli animali che vivono in un orto, il racconto inizia con un narratore esterno che riferisce di una storia raccontata, a sua volta, da una chiocciola e una lumaca, “ – fermi su di una foglia / di peperone – a un gatto / che la propagò per tutta la contrada”. Chi ha letto la trilogia devitiana in dialetto sa evidentemente che si parla della contrada Cutusio in cui il poeta siciliano è nato e cresciuto e in cui vive ancora oggi, sebbene qui tutto sia trasfigurato e fuori dal tempo, come in una fiaba o favola esopiana. Gli animali dell’orto siamo noi, e l’orto è una piccola società difettosa. Nella prima parte De Vita presenta la scena e alcuni personaggi. È sera nell’orto e un gatto, “loffio in mezzo all’erba”, ascolta “in principio annoiato, / e dopo sempre più / preso” una chiocciola e una lumaca che pettegolano di qualcun altro.
Disse la chiocciola, come
riprendendo un discorso:
‘Ho molta pena. Lo conoscevo
e gli volevo bene’.
‘E pure io’ disse
la lumaca. ‘Stava sempre
di giorno dentro il buco
che è sotto il muricciuolo
-a dormire, a pensare
forse – ma se sentiva
un calpestìo oppure un parlottìo
si affacciava a guardare,
a dialogare’
De Vita nasconde più che rivelare, crea tensione fin dall’inizio, col risultato innegabile di spingere i lettori a girare pagina, per scoprire di chi si sta parlando. Il personaggio principale del racconto, il lombrico del titolo, non viene ancora nominato ma si intuisce la figura innocua di un animale solitario e gentile.
La seconda parte si apre con un dubbio confidato dalla chiocciola:
‘E chi lo sa, forse
era innocente’ fece.
La lumaca convenne:
‘Bisognava cercare
altre accuse’ disse
‘prima della sentenza’
Il lettore è adesso ancora più confuso, come il gatto che infatti non capisce e pretende più chiarezza: “’Siate più chiari’ disse ‘va’. Non state, qui, / a dire la fine / quando ancora non ne so / l’inizio’”. La chiocciola inizia così il racconto, diventando d’ora in poi il secondo narratore, questa volta interno, da cui sentiremo la triste storia del lombrico che comincia con un flashback. De Vita usa una struttura molto complessa nel suo intrecciare diversi narratori e punti di vista ma riesce ad amalgamare tutto grazie ai dialoghi molto realistici e vivaci, così vicini al parlato, e un’attitudine teatrale che catapulta il lettore dentro l’orto, curioso di conoscere il resto.
«La storia incominciò
due settimane addietro.
Venne, una mattina, il contadino, guardò
attento le piantine e cominciò a gridare:
“Non se ne può più, no, non se ne può più:
non attecchisce niente”
Viene introdotta la figura del contadino, un uomo rude che sa solo urlare e alzare “il pugno come un demente”. E infatti minaccia i “farabutti animali” di ucciderli: “Ma io vi uccido, / vi distruggo, io vi avveleno!”.
La chiocciola spiega al gatto quanta paura quelle parole abbiano creato tra gli abitanti dell’orto e il felino ammette che avrebbe “provato angoscia” anche lui. Cresce ancora la tensione narrativa e finalmente la lumaca, interrompendo il racconto della chiocciola, nomina il lombrico: “’E’ da qui che comincia / la storia del lombrico’”. La chiocciola non ammette altri narratori perché lei ha “iniziato” e lei deve “finire” e racconta della grande domanda che arrovellava tutti dopo le minacce del contadino:
“ora, che si deve fare?”
«Acchiappare i responsabili»
disse il gatto «e castigarli!»
«E questo si cercò
di fare» disse
la chiocciola. «Ma non fu cosa da poco
Ha inizio una lunga carrellata di accuse e autodifese, in un teatrino molto vivace in cui ogni animale, ipocritamente, cerca di far salva la pelle, sminuendo o addirittura negando il proprio impatto sulle condizioni dell’orto. L’unico a non essere presente, durante l’assurda messa in scena, è proprio il lombrico. Il primo a scagionarsi da ogni accusa è il vecchio grillo, “capopopolo dalla bella parlantina” (forse diretto discendente dell’antenato collodiano) (Califano 2008, 29).
Nella terza parte si forma una vera assemblea con tutti “i residenti /dell’orto, usciti / dai buchi e dalle tane, scivolati / dai tronchi, / dalle foglie, dagli steli, / e radunati lì per concludere”. Al grido di “Popolo!” il grillo anima la folla, informando tutti della strage imminente causata dai veleni dei contadini. “I responsabili, vogliamo i responsabili!” / alcuni ripetevano. / “A morte i miserabili!”. Non c’è alcuna solidarietà tra gli animali che potrebbero allearsi contro il crudele contadino, unica vera minaccia; nessuna rivoluzione, come nella fattoria degli animali di Orwell, ma una lunga sequela di astuzie verbali, capricci e prepotenze, come la tradizione favolistica insegna. La discussione, già parecchio caotica, si anima ancora di più quando il grillo, insieme ad altri, incolpa, con una motivazione molto appropriata, i grillotalpa, accusati di “aprire grosse tane / nella terra e tagliare / radici alle piantine”. Il gatto interrompe il racconto perché ancora non capisce “cosa c’entra il lombrico…”. La figura del gatto diventa quasi un alter ego del lettore/ascoltatore, sempre pronto a fare domande e pretendendo chiarezza nella storia: sembra un bambino che incita il proprio genitore a riprendere il filo del discorso. La chiocciola, infatti, riparte proprio dal lombrico, raccontando: “Venne tirato in ballo / quando il grillotalpa / sul palco – alle strette – / pronunciò il nome suo. / Quell’unico e solitario / lombrico che viveva / con noi venne accusato, / lui, dai grillotalpa, / di mangiare la terra / dell’orto!”. Il gatto è “sbalordito” e nel segno della diversità si introduce il personaggio centrale della storia: un lombrico, l’unico a mangiare la terra, diventa simbolo dei diversi, assurge a figura su cui scaricare tutte le accuse. Senza insegnare nulla, senza alcun moralismo e soprattutto in modo implicito alla narrazione, De Vita parla di noi, della nostra società.
Il grillotalpa, urlatore di professione, è il furbo demagogo che conosce bene i punti deboli delle masse: a un’accusa risponde con false accuse sull’ unico assente, il diverso, fomentando la paura e l’odio latente della platea. De Vita, che grazie ai suoi studi di agraria e all’insegnamento di materie scientifiche conosce bene la fauna e la flora, aveva già scritto del grillotalpa e del lombrico in Fosse Chiti: “Nell’orto, / vorace, il grillotalpa / scava e taglia / radici / alla lattuga” (De Vita 2007, 19); il lombrico, invece, “Mangia la terra grassa / dell’orto. Un granellino / di sabbia / una pagliuzza” (De Vita 2007, 21). L’accusa del grillotalpa si gioca tutta sull’iperbole, sull’esagerare la pericolosità dell’unico animale che mangia in modo diverso. “Arriveremo così / nel momento preciso che l’hai vista / la terra e non la vedi / più”. Il demagogo distrae la folla da se stesso, chiaramente uno dei più legittimi colpevoli, creando un capro espiatorio che minaccia la sopravvivenza di tutti. E niente potrà il solitario lombrico, senza alcun gruppo che lo sostenga, unico nel suo genere, di fronte al clan dei grillotalpa e alla folla ormai convinta della sua colpevolezza.
Nell’ultima parte si assiste alle torture, fisiche e psicologiche, inflitte al lombrico in un processo senza difesa. “Andarono nella tana. / E tenendolo stretto ( – serrato – con un paio / di cretini che cercavano / di malmenarlo, lo trascinarono / a confronto”. La vittima impaurita confessa, dice la verità, ed è l’unico, paradossalmente, a farlo: “Sì” disse “mi nutro / mangiando la terra”. La condanna, adesso, è certa: “A morte” / fecero quei bastardi. / “A morte e la finiamo!”. Il gatto, dopo questo racconto, si è convinto anche lui della colpevolezza del lombrico, anche se De Vita in modo molto velato ce lo mostra irrequieto, “intorpidito”. La chiocciola, avvertendo il felino di stare attento nel giungere a conclusioni affrettate (“Calma […] Io pure la pensavo come te, / ho votato per la sua condanna”) descrive la pena inflitta al processato: rimanere nell’orto “ma tenendosi lontano / dalla terra”. La condanna è la più subdola che si possa immaginare: obbligare qualcuno a essere diverso da com’è, costringendolo a comportarsi come gli altri, mangiare come gli altri, così portandolo inesorabilmente alla morte di fame. Il lombrico, non potendosi opporre alla volontà del popolo, “Incominciò ad assaggiare, schifiltoso” gli ortaggi ma dopo un solo giorno “riprese / con la smania di mangiare / la terra”. Impeditogli di avvicinarsi alla terra il lombrico decide infine di non mangiare più.
Rimminchionito / perdette ogni vigore; e una mattina, / sfinito / e rantolante, morì
Il racconto si conclude con un’ultima domanda del gatto che vuole capire, ingenuamente, perché “questo lombrico / era per voi innocente”. Negli ultimi sei versi la chiocciola cede la narrazione alla lumaca che risponde: “Perché il contadino ieri, / ma pure questa mattina / – poco fa, si può dire – / ha trovato piantine / di aglio e broccoletti / morte”.
Tematiche: ingiustizia, pena di morte, diversità.
Sono temi molto importanti quelli de “Il racconto del lombrico”. Soprattutto la diversità è una delle tematiche che, esplicitamente ma più spesso implicitamente, percorre tutta la letteratura giovanile. Molto meno battuto l’argomento della pena di morte (molto difficile da affrontare, anche per gli adulti) e abbastanza presente quello dell’ingiustizia, anche se raccontato spesso attraverso la lente del suo opposto, la giustizia (si pensi ai tanti libri che raccontano alcune figure esemplari della lotta alla mafia).
Mentre scrivevo la mia tesi di laurea, dopo le prime analisi del racconto di De Vita, ho deciso di affrontare alcune letture laterali con cui volevo trovare un legame, solo ipotizzabile, con la tradizione favolistica. Quel legame l’ho trovato con una favola di La Fontaine, “Gli animali malati di peste”, una storia di ingiustizia e della condanna a morte di un diverso.
Nella favola francese, rigorosamente in rima, la peste si abbatte sugli animali, forse per punirli delle loro colpe. Il leone convoca un’assemblea, “un gran consiglio”, in cui invita tutti a farsi “l’esame di coscienza” e confessare i propri misfatti, così da poter infine sacrificare al Cielo “quei che ha più peccato” e sperare di scampare al terribile flagello. Quello che De Vita suggerisce senza esplicitarlo, la reale motivazione che porta gli animali dell’orto a condannare il lombrico (far morire lui per salvare la pelle), La Fontaine lo chiarisce subito facendo dire al leone:
Il suo sangue (e la storia ci dimostra / che più volte giovò l’espediente) / forse otterrà la guarigione nostra
A differenza degli insetti dell’orto che negano qualsiasi responsabilità, qui ognuno ammette i propri crimini. Il leone, per esempio, confessa di mangiare molti agnelli. Ma subito la volpe sminuisce il fatto: “Non vedo che vi possa esser peccato / a mangiar questa razza di minchioni”. La volpe, furba come il grillotalpa di De Vita, appassiona il pubblico con il cinismo e la demagogia dei prepotenti: “A questo dir scoppiar grandi gli applausi”. Ma questi animali che confessano sono i più feroci, i più potenti (il leone, le tigri, gli orsi, il lupo), e le loro colpe vengono sminuite: “non si cercò / il pel nell’ovo e i minimi trascorsi”. Chi invece verrà reputato come maggior colpevole è proprio l’animale più debole: un asinello. Questo confessa, “contrito in cor”, che per “tentazione del demonio, o fame […] brucò dell’erba”. Anche l’asino, come il lombrico, si ritrova solo e debole e viene condannato a morte, nonostante sia evidente l’ingiustizia subita.
Udito ciò, gridarono anatema / quei santi padri al povero Asinello. Un lupo, intinto di teologia, / […] mostrò che la cagion della moria / venìa da questo triste spelacchiato, / che per il suo malfare / bisognava che almen fosse impiccato

Alla fine, come ogni favola tradizionale che si rispetti, La Fontaine scrive la morale, rigorosamente in rima baciata: “Della giustizia quando siede al banco, / sempre il potente come giglio è bianco, / ma se a seder si pone / il poveraccio, è un sacco di carbone”. Il tema dell’ingiustizia viene trattato in modo diverso. Se la favola tradizionale esplicita senza mezzi termini il proprio scopo, cioè di insegnare una lezione e denunciare la società, la ‘favola’ di De Vita ha il proprio nucleo nel piacere del racconto, con un discorso sull’ingiustizia che affiora lentamente, dopo più letture e senza mai essere didascalico o moraleggiante. De Vita non vuole insegnare ma narrare. La forza della sua poesia mette semi duraturi nel lettore: semi da cui nasce l’indignazione e il rifiuto per una società (l’orto) in cui chi è diverso e più debole deve soccombere. La diversità del lombrico porta con sé anche una tragica solitudine, un essere soli e ignorati che ci ricorda una condizione tipicamente infantile, spesso taciuta o sottovalutata.
Diversità e solitudine dell’infanzia sono temi che si intrecciano nei libri per bambini. In particolare con De Vita il tema della solitudine, di grandi e piccoli, animali ed esseri umani, è stato declinato più volte. Penso per esempio al racconto “Il riccio”, sempre da “Cùntura”, in cui De Vita descrive la triste vicenda di un altro animale solitario e diverso, un riccio. Come il lombrico anche il riccio vive nascosto e appartato e ha abitudini diverse dagli altri animali: “[v]iveva nella cavità / di un muro il riccio […] e dormiva, russando, tutto il giorno” (De Vita 2003, 174). “Né amici né parenti / stretti possedeva: / il padre e la madre morti / e i fratelli dispersi per la valle. // Gli altri animali, ma pochi / – pochissimi – con cui aveva / avuto relazioni […] dopo / un po’ di tempo, per ripicca, / l’avevano lasciato / solo” (De Vita 2003, 178). Anche il riccio viene accusato ingiustamente (della sparizione di un coniglio o di non aver dato riparo a un topo). “Solo, senza un amico / fraterno che lo sostenesse, lo consigliasse, / […] si avviava verso una brutta / vecchiaia” (De Vita 2003, 182).
Il riccio e il lombrico di De Vita sono molto simili ai libri da lui descritti nella poesia I libbra (I libri) quando scrive:
I libri stanno soli, come quelli
che sono maltrattati, che vivono un sopruso,
ristretti nei ripiani, muti:
l’umido li macchia,
nei posti bassi, oscuri, sporchi
di muffa
(De Vita 2017, 142)
Le illustrazioni
“Il racconto del lombrico” è illustrato da Francesca Ghermandi, artista nota soprattutto nel campo dei fumetti. Nata nel 1964 a Bologna è stata allieva di Andrea Pazienza. Inizia a pubblicare fumetti nel 1985 sulla rivista “Frigidaire”, collabora per molti anni con “Il Manifesto” e le sue illustrazioni compaiono sulle principali riviste italiane. Ha pubblicato storie a fumetti in Francia, Spagna, Gran Bretagna e Slovenia (su “Streepburger”). Per Editori Riuniti ha illustrato “Le Avventure di Cipollino” di Gianni Rodari e per Topipittori ha illustrato “Il libro delle torte” di Giovanna Zoboli. Nel catalogo di Orecchio Acerbo ha illustrato anche “Pronto Soccorso e beauty case” di Stefano Benni (2010), “Al solito posto” di Pina Varriale (2006) e “L’ombra e altri racconti” di Hans Christian Andersen (libro collettivo, 2005).
Come rendere in immagini una narrazione in cui non avviene quasi niente? Una storia, quella di De Vita, in cui la trama è sorretta solo da dialoghi e pochissime azioni: animali che parlano e altri che ascoltano. Come immaginare l’assemblea piena di odio e indifferenza narrata dal poeta siciliano e proporla ai bambini?
Francesca Ghermandi sottolinea l’irrazionalità che pervade, a un livello implicito, tutto “Il racconto del lombrico” e ne ha dato un’interpretazione molto originale e inaspettata, calcando la mano sul grottesco. Per far questo si è servita dello stile che da sempre la contraddistingue: un segno caricaturale che ricorda Jacovitti e Andrea Pazienza e attraverso la lente del fumetto ci restituisce un mondo animale che ricorda Disney ma in una versione moderna altamente deformata e per niente edulcorata. In un tripudio di colori e atmosfere quasi da cartone animato si svolge l’assemblea degli animali dell’orto devitiano, “sotto lo sguardo perplesso e partecipe di una luna antiromantica” (Benfante 2008, sp). Questa luna, presente in due tavole del libro, passa dallo sguardo pieno di dubbi e confusione dell’incipit, in cui il gatto ascolta annoiato i pettegolezzi della lumaca e della chiocciola, fino alla smorfia di dolore e sconforto nel momento chiave della storia in cui si racconta dell’accusa fatta al lombrico.
È su questa dinamica delle espressioni facciali che la Ghermandi focalizza la sua attenzione, consegnandoci una ricca galleria di volti e mimiche del viso sotto il segno del dolore, della rabbia, dell’indifferenza. Come dice Benfante (2008, sp): “[S]e da un lato lo sfolgorio cromatico avvolge la rappresentazione di una luce gioiosa, dall’altro un gioco inquietante di occhi sbilenchi, obliqui, sgranati, affessurati, attoniti, strabuzzanti si presta a esprimere una ridda di sentimenti esasperati”. Il gatto che ascolta passa dalla noia alla confusione iniziali fino alla rabbia e all’odio verso il lombrico, persuaso anch’esso della sua colpevolezza, per finire in una maschera di sconforto nella conclusione, quando sembra aver capito la follia della vicenda che ha ascoltato.
La chiocciola e la lumaca, invece, mantengono dall’inizio alla fine una faccia che porta i segni della falsa coscienza, del rimorso e della vergogna di cui sono responsabili, ma anche una maschera dietro cui intuiamo un atteggiamento vittimistico di chi non poteva sapere o non si rendeva conto delle atrocità in corso sotto i loro occhi. E poi abbiamo il naso aquilino e gli occhi furbi del grillo, gli enormi occhi gialli pieni di indignazione del calabrone, gli occhi meravigliati ed impauriti di cicale, coccinelle e farfalle, i denti aguzzi e le bocche che sbavano di rabbia dei “cretini” che portano il lombrico al processo, malmenandolo.
Il grillotalpa, il demagogo che con le sue bugie e le sue urla convince infine tutta l’assemblea della colpevolezza del lombrico, è raffigurato in tutta la sua sfacciataggine. Prima, accusato, piange e implora tutti con le mani in preghiera. Dopo sferra l’attacco, battendo i pugni sul petto e incitando la folla, degno dei migliori dittatori del nostro passato e del nostro presente, ma anche di tanta politica che usa l’odio e le bugie per muovere gli animi della gente.
In questa sua galleria di visi e gestualità ‘bestiali’ la Ghermandi attua lo stesso procedimento di antropomorfizzazione tipico della favola: trasferire “nelle bestie i caratteri umani” (Cibaldi 1985, 311) traducendo il racconto “in satira di costume, non sempre sorridente” (ibidem). Gli animali della Ghermandi ci ricordano quelli della ‘Alice’ di Lewis Carroll, anche loro “strani animali parlanti nei quali si rintraccia sempre almeno un attributo umano; tutto ciò fa caricatura e situazione risibile, anche se si ride piuttosto a denti stretti” (ibidem).
L’albo illustrato si chiude su un’immagine piena di senso in cui la Ghermandi ci mostra i piedi enormi del contadino accanto agli ortaggi rovinati e si possono solo immaginare gli abitanti dell’orto mentre nascosti cominciano, di nuovo, la ricerca assurda di un colpevole.
Con questa illustrazione Il racconto del lombrico sembra suggerire che
il mondo dei piccoli (gli animali-bambini) non è alla stessa altezza di quello degli adulti.
Bibliografia
Benfante, Marcello. 2008. “La favola di De Vita processa il lombrico”. La Repubblica–Palermo, 14 maggio 2008.
Califano, Francesca. 2008. “Il racconto del lombrico”. Il Pepeverde 2008 (37).
Cibaldi, Aldo. 1985. Storia della letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. Brescia: La Scuola.
De Vita, Nino. 2017. Sulità. Messina: Mesogea
De Vita, Nino. 2008. Il racconto del lombrico. Illustrato da Francesca Ghermandi. Roma: Orecchio Acerbo.
De Vita, Nino. 2007. Fosse Chiti. Messina: Mesogea.
De Vita, Nino. 2005. Nnòmura. Messina: Mesogea.
De Vita, Nino. 2003. Cùntura. Messina: Mesogea.
De Vita, Nino. 2001. Cutusìu. Prefazione di Vincenzo Consolo. Messina: Mesogea.
La Fontaine, Jean:de. 1999. Favole. Liber liber. http://www.liberliber.it/mediateca/libri/l/la_fontaine/favole/pdf/favole_p.pdf.
Orwell, George. 1986. La fattoria degli animali. Milano: Mondadori.
Rodari, Gianni. 2000. Le avventure di Cipollino. Illustrato da Francesca Ghermandi. Roma: Editori Riuniti.
Sciascia, Leonardo. 1997. La Sicilia, il suo cuore; Favole della dittatura. Milano: Adelphi.
Zoboli, Giovanna. 2006. Il libro delle torte. Illustrato da Francesca Ghermandi. Milano: Topipittori